Chips Act, il confronto è già iniziato

Chips Act
Fonte: Unione Europea

Perplessità e critiche non si sono fatte aspettare subito dopo l’annuncio del Chips Act da parte della UE. Tempi, competenze e concorrenza i nodi più discussi.

Com’è facile prevedere, non si sono fatte attendere le risposte e i commenti all’annuncio del Chips Act dell’Unione Europea. Meno scontato del previsto però è che non sono stati tutti positivi. Sono infatti diverse le critiche arrivate da più parti su obiettivi e modalità di una decisione considerata da alcuni addetti ai lavori non abbastanza realistica.
Più di ogni altra cosa, però, è che si tratta di un progetto destinato a cambiare prima ancora di iniziare a causa dello scenario internazionale radicalmente mutato nel giro di pochi giorni con l’invasione della Russia ai danni dell’Ucraina.
Una situazione quindi estremamente delicata, dove al pericolo di vedere superata dagli eventi una decisione considerata per certi versi storica, si contrappone comunque all’intenzione di andare avanti, pronti semmai ad adattarsi alla situazione.

I numeri di una sfida difficile

L’obiettivo del Chips Act versione UE resta quello di raddoppiare la produzione comunitaria di semiconduttori entro il 2030. Per riuscirci, ci saranno a disposizione 30 miliardi di euro previsti dal Next Generation ai quali l’intenzione è aggiungerne altri 15 miliardi per investimenti mirati.
Non bisogna però sottovalutare la realtà. Con la guerra stanno cambiando anche gli scenari commerciali. Se dal punto di vista più popolare, Milena Gabanelli nel Dataroom di La 7 solleva prima di tutto l’opportunità di mantenere la priorità negli investimenti, alcuni dati non si possono ignorare.
Nel 1990 la produzione di semiconduttori era per il 37% negli Usa e per il 55% all’interno dell’Unione Europea. Come è facile intuire, è una situazione lontana anni luce dalla situazione attuale, con un’Europa che contribuisce alla produzione di chip solo per l’8%. Ancora peggio, nelle condizioni attuali le previsioni indicano un’ulteriore discesa fino al 4% entro il 2030.
In pratica si tratta di una dipendenza pressoché totale non tanto da Giappone, Taiwan e Corea del Sud, quanto dalla meno affidabile Cina, instabile dal punto di vista delle recenti strette politiche e in caso di eventuali, future sanzioni. Anche sotto l’aspetto economico si tratta di una questione cruciale. Rispetto al fatturato attuale di un trilione di dollari, già difficile da inquadrare, le previsioni per il 2030 indicano una crescita fino a 2 trilioni di dollari.
Quindi, una pericolosa combinazione di dipendenza e di mancate opportunità, ben rappresentata dal lancio del recente supercomputer Leonardo presso il Cineca di Bologna, uno dei più potenti al mondo. Un sistema all’interno del quale non è presente alcun componente di fabbricazione europea.

Il Chips Act non si ferma

Al momento, però, l’UE sembra decisa a proseguire sulla strada appena intrapresa. La tabella di marcia risulta al momento confermata. Tra le linee guida diramate, infatti, si legge chiaramente: “Gli Stati membri sono incoraggiati ad avviare immediatamente gli sforzi di coordinamento in linea con la raccomandazione per comprendere l'attuale stato della catena del valore dei semiconduttori nell'UE, così da anticipare possibili perturbazioni e adottare le misure correttive necessarie per superare l'attuale carenza fino all'adozione del regolamento”.
Nell’occasione si chiamano espressamente in causa anche le singole nazioni, sollecitando i rispettivi Parlamenti a discutere la questione e quindi rimandare eventuali osservazioni alla Commissione, in modo da accelerare i tempi.

Rischi e conseguenze da valutare

Dall’altra parte, però, per l’industria del settore la situazione non è certo così facile e lineare come sembra. Interessante in questo senso è quanto scritto da Fabio Masini su EURACTIV Italia, che sottolinea prima di tutto un cambio di paradigma per certi versi storico nella UE, con una sorta di intervento pubblico nelle strategie produttive, con tutti i rischi che ne conseguono.
Tali rischi sono riassunti nella dichiarazione di Henning Vöpel, direttore generale del CEP – Centro Politiche Europee. «Limitando la concorrenza e condizionando il libero scambio, Bruxelles sta intraprendendo un pericoloso percorso di politica industriale, violando essa stessa alcuni principi fondamentali dell’UE».
Secondo questo punto di vista viene considerato più opportuno e proporzionato migliorare massicciamente le condizioni base per favorire le localizzazioni europee delle industrie di ricerca e di alta tecnologia, rimediando a una situazione trascurata per anni.
Se la situazione attuale legata alla carenza di componenti viene nonostante tutto considerata ancora passeggera, una proposta alternativa è dedicarsi invece a un intervento meno invasivo, cercando di aiutare le aziende a recuperare e mantenere aggiornate le informazioni utili a comprendere meglio e gestire i rischi nella catena di approvvigionamento dei chip.
Sempre nello stesso articolo è presente una posizione condivisa dall’esperto giuridico e ricercatore del CEP Lukas Harta. “È incomprensibile come l’UE si sia posta l’obiettivo di portare in futuro il 20% della produzione mondiale di chip nell’UE. Rischia di creare più problemi di quanti ne risolva. Ci vorranno almeno tre anni affinché le prime fabbriche di microchip finanziate dal Chips Act possano produrre. E la carenza per allora, molto probabilmente, sarà già stata risolta”.
Oltre a quelli intrinsechi dei sussidi, tra i rischi inquadrati, spiccano la carenza di personale qualificato e soprattutto l’accesso alle materie prime, per buona parte comunque in mano alla Cina. Senza naturalmente trascurare i costi dell’energia, in grado di vanificare ogni sforzo.
Si tratta di critiche di un certo peso, e non le uniche. D’altra parte, però, c’è anche la volontà di apparire costruttivi, guardando più al futuro del presente. Più di sussidi per realizzare i chip oggi mancanti, l’invito è a pensare a quelli di domani. Bisogna investire quindi in tecnologia per consentire all’Europa tornare competitiva e non doversi più trovare a rincorrere.

Intel ci crede e non perde tempo

In ogni caso, il problema esiste e richiede interventi immediati. Chi mostra di credere nel Chips Act e non esita a dimostrarlo non manca, a partire da Intel. Come confermato proprio in questi giorni al Corriere della Sera, l’azienda ha infatti intenzione di proseguire nel progetto di investimenti in Europa.
Si parla di una cifra decisamente importante. Ottanta miliardi di euro, 4,5 dei quali destinati all’Italia. Nei prossimi dieci anni si punta in questo modo ad “assicurare all’Europa un’intera filiera di ricerca, produzione e packaging dei semiconduttori – si legge nell’articolo di Federico Fubini –, che strappi il continente dalla sua dipendenza dall’Asia e dagli intoppi alle catene del valore”.
Aspetto importante da sottolinearne, quasi una risposta alle critiche precedenti, è l’arco di tempo decennale che sarà necessario anche e soprattutto per le generazioni future dei semiconduttori. Un altro punto da rimarcare, poi, è che si parla espressamente di coprire l’intera filiera, aspetto questo indispensabile per parlare di autonomia produttiva.
La conferma arriva direttamente da Pat Gelsinger, CEO di Intel. Nel progetto, l’Italia è coinvolta con un impianto di packaging, capace di impiegare 1.500 figure all’interno e occuparne altre 3.500 nella filiera. La ripartizione proposta dall’azienda è frutto anche della disponibilità delle relative competenze, per effetto delle quali la parte più consistente – 17 miliardi di euro – è destinata alla Germania per il raddoppio della fabbrica di Magdeburgo destinata alla produzione dei chip da 1,8 nanometri. Rimane un certo riserbo sull’entità del contributo riconducibile al Chips Act, anche se le voci indicano una cifra intorno al 30-40%.

Chips Act: sotto le parole, poco di nuovo

Tutto ciò non è abbastanza però, per convincere anche i più scettici. In particolare, Tino Oldani, su Italia Oggi, raccoglie diverse voci contrastanti. Prima di tutto, sotto accusa sono proprio le cifre. I 43 miliardi di investimenti distribuiti in otto anni sono considerati insufficienti, in particolare se confrontati con i 52 miliardi di dollari messi a disposizione subito dagli Stati Uniti per potenziare le proprie fabbriche di chip e attirarne di nuove.
La Cina stessa non ha alcuna intenzione di stare a guardare. Ha infatti investito con lo stesso obiettivo 150 miliardi di dollari tra il 2015 e il 2020, e anche la Corea del Sud ne sta investendo 450 miliardi US$ entro il 2030.
Secondo i più critici, i 43 miliardi di euro messi in campo dalla UE mirano a coprire il 20% della produzione mondiale. Esattamente lo stesso obiettivo di un piano analogo lanciato nel 2013. Come se non bastasse, costruire una mega fab di chip in Europa richiederebbe diversi anni, fino a cinque, con un investimento molto più oneroso sul piano finanziario rispetto ad analoghe iniziative in Cina, Taiwan e Corea del Sud. Gli aiuti pubblici sono quindi indispensabili e qui entrano potenzialmente in gioco le norme comunitarie sulla concorrenza a rischiare di rallentare il progetto. Non a caso, Margrethe Vestager, responsabile dell’Antitrust Ue, alla conferenza di presentazione dell’European Chips Act, ha annunciato la riduzione dei vincoli antitrust sui finanziamenti pubblici.
Una situazione quindi estremamente delicata, dove alle buone intenzioni e a decisioni comunque incoraggianti e coraggiose inizia a contrapporsi una realtà diversa, ben più complessa e imprevedibile. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare quanto è successo tra la fine di febbraio e inizio di marzo a complicare una situazione già instabile. Una situazione in grado di mettere in secondo piano il Chips Act pochi giorni dopo il suo varo e a portarne alla ribalta i limiti, al punto da indurre Tino Oldani a definirlo senza esitazione “nozze con i fichi secchi”.

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