Anche in Italia ci sono aziende di eccellenza che sanno produrre in modo innovativo e con grande qualità, riuscendo a conquistare i mercati mondiali. E che, soprattutto, pur tra mille difficoltà sono fiere di essere italiane e non hanno intenzione di abbandonare il loro Paese d'origine. Società che esportano fino al 98% della loro produzione. E non si tratta di operatori del settore della moda o dell'agroalimentare, ma di produttori di elettronica avanzata. Ne ho avuto la conferma verso la metà del mese di maggio quando mi è capitato di moderare un dibattito organizzato dalla Federazione Anie, l'organizzazione di Confindustria che riunisce le imprese italiane di elettronica.
Attorno al tavolo una decina di imprenditori, tutti rigorosamente italiani riuniti per discutere su "Produrre alta tecnologia in Italia, oggi. Conoscere, affrontare e superare le insidie nell'attuale contesto competitivo." Mi aspettavo le solite considerazioni, un po' scontate, sull'ineluttabilità del declino dell'elettronica made in Italy e sull'inevitabile morte prossima ventura del settore. Ma sono stato completamente spiazzato dagli interventi. C'era lo specialista di macchine di collaudo che rivendicava con orgoglio di aver saputo realizzare soluzioni uniche e avanzate, vendute in tutto il mondo ai più esigenti fabbricanti di complessi dispositivi a semiconduttori. C'era chi produce circuiti stampati complessi, venduti quasi esclusivamente all'estero nonostante la spietata concorrenza dall'Estremo Oriente. E chi raccontava di come era riuscito a imporre le proprie soluzioni di automazione in Brasile, in Germania e di come si stava apprestando a sbarcare in forze in Cina. Nessuno dei partecipanti all'incontro sembrava essere sfiorato, neppure lontanamente, dall'idea di trasferire armi e bagagli in regioni del mondo con un costo della manodopera più competitivo, o con leggi meno restrittive.
Ovviamente le critiche al nostro "sistema Paese" ci sono state, anche piuttosto accese e argomentate. I miei interlocutori si lamentavano di una legislazione del lavoro farraginosa, di un costo del lavoro esorbitante a causa di un carico fiscale e previdenziale esagerato, di una pubblica amministrazione che sembra fare di tutto per mettere i bastoni tra le ruote. Ma erano ben consapevoli di rappresentare un campionario di eccellenze concrete, reali, di successo consolidato. Uno di loro si vantava, giustamente, di aver saputo stravolgere un paradigma dell'industria italiana, creando un'azienda che lui definiva "cervello-centrica", basata sull'innovazione e capace di raggiungere ottimi livelli di produzione senza per questo snaturarsi e diventare "operaio-centrica".
Tutti, indistintamente, avevano costruito la loro fortuna sulla capacità di sfruttare tecnologie di frontiera. A dimostrazione che anche in Italia ce la si può fare. Anche se uno di loro commentava, un po' amaramente: "Il nostro è un Paese molto difficile per noi e non aiuta certamente chi mostra segni di debolezza. Non esistono le mezze misure: o sei davvero bravo, o sei è destinato a scomparire. Noi siamo tra i pochi sopravvissuti."