Dalla ricerca la rinascita italiana

 L’Università italiana
sta attraversando un momento molto critico che rispecchia peraltro la
situazione di difficoltà in cui versa l’intero Paese. Rispetto al 2009 il
finanziamento statale del sistema universitario ha subito una contrazione del 10%
che, se corretta per l’inflazione, corrisponde al 20% in termini reali. Una
contrazione durissima per un sistema già significativamente sotto-finanziato. Non
è quindi un caso che una nota recente del Consiglio Universitario Nazionale
sottolinei come circa la metà degli Atenei italiani siano nelle condizioni di non
poter rispettare i limiti di bilancio previsti dalla legge; una situazione di
vero e proprio “default”.A questo si
aggiunge il blocco del turn-over, ovvero i limiti stringenti all’assunzione di ulteriore
personale anche a fronte di pensionamenti. In questi anni si è quindi interrotta
la immissione di giovani ricercatori. E’ evidente che in una istituzione come
l’Università, dove l’innovazione trae sostanziale impulso dalle idee ardite e
visionarie delle giovani menti, ciò determina un danno permanente che avrà inevitabili
ripercussioni sulla competitività e sulla qualità dell’Università Italiana nel
prossimo futuro.

Ne abbiamo
parlato con Andrea Lacaita, Professore Ordinario di Elettronica al Politecnico
di Milano - dove insegna “Dispositivi elettronici “ e “Progettazione
Elettronica” e coordina il laboratorio di nanoelettronica del Dipartimento di
Elettronica, Informazione e Bioingegneria (DEIB). Il professor Lacaita è stato
un sostenitore attivo dell'Innovation Design Contest, concorso organizzato da
Selezione di Elettronica con il patrocinio del Politecnico di Milano
nell'ambito dell'Innovation Award 2013 con l’obiettivo di stimolare i laureati
e laureandi dei corsi di studio in ingegneria elettronica o affini nel settore
dell’informazione di tutti gli Atenei italiani a coltivare i propri talenti e
la propria creatività, individuando e premiando eccellenze progettuali di
applicazioni elettroniche.

 

Professor Lacaita, l’Italia
vanta nella propria università un’innegabile tradizione di eccellenza: qual è
lo stato delle corsi di studio di elettronica?

Al di là delle classifiche che vengono divulgate
periodicamente si può certamente dire che l’Italia ha un buon sistema
universitario con punte di eccellenza riconosciute a livello internazionale. Indubbiamente
si può migliorare, e l’Università italiana può farlo, ma nel contesto di un
recupero di progettualità e vigore dell’intero Paese. Il Paese deve rialzare la
testa e guardando al suo futuro deve poter contare su un'Università adeguata,
in cui maturi l’eccellenza italiana nella ricerca. Se il Paese assume
responsabilmente questa scelta, le Università Italiane sapranno rispondere al
meglio. Ma è necessario volerlo, recuperando una visione complessiva di
politica economica, industriale, di sostegno alla conoscenza; una visione che
il Paese sembra aver perso da lungo tempo ma di cui, nel passato, è stato coraggiosamente
capace.

La storia dell’elettronica italiana ne è un
esempio. Nata nel secondo dopoguerra, sulla scia delle ricerche pionieristiche
sui primi componenti elettronici e sulle loro applicazioni alle trasmissioni, ai
primi calcolatori e alla ricerca nucleare, l’elettronica entra nell’ordinamento
accademico italiano con l’istituzione, nel 1957, della cattedra di Elettronica
Applicata al Politecnico di Milano. La cattedra è affidata alla guida del Professor
Emilio Gatti e l’aggettivo “applicata” fu voluto proprio per sottolineare come
la nuova disciplina dovesse avere la missione di tradurre le conoscenze di base
in applicazioni innovative. Nel corso degli anni ’60, sotto la guida di Emilio
Gatti e del professor Ercole De Castro dell’Università di Bologna, la piccola comunità
accademica di elettronici italiani intuisce la portata dirompente delle nascenti
tecnologie microelettroniche. Ercole De Castro, con visione anticipatrice,
fonda nel 1969 il Laboratorio di Microelettronica del CNR di Bologna, LAMEL, preso
poi a modello di altri laboratori microelettronici di successo fondati in Europa,
quali l’IMEC fortemente voluto sul modello del LAMEL dalla comunità fiamminga.

In parallelo, nel 1959 nasce l’Azienda Tecnica ed
Elettronica del Sud (ATES) con stabilimento a l'Aquila. Nel 1961 nasce a
Catania uno stabilimento di “semiconduttori allo stato solido" e nel 1963
si forma la ATES - Componenti elettronici S.p.A. Nel 1972 si ha la
incorporazione della Società Generale Semiconduttori (S.G.S) di Agrate Brianza,
ponendo le basi di quello che diventerà STMicroelectronics. E’ interessante
notare che i soci fondatori di S.G.S., tutti privati, furono le realtà
industriali di successo che avevano compreso, allora, il potenziale che avrebbero
avuto i semiconduttori: le italiane Olivetti (computer) e Telettra
(telecomunicazioni) e la statunitense Fairchild (componenti). Parallelamente, grazie
all’opera del professor Antonio Paoletti di Roma, il CNR dedica uno dei primi progetti
finalizzati ai materiali e alle tecnologie per la microelettronica. Sviluppo
industriale e ricerca pubblica procedevano di concerto permettendo la formazione
di ricercatori e docenti competenti, in grado di formare il bacino di talenti
necessario allo sviluppo industriale. Una visione strategica complessiva e
integrata che ha portato al successo.

Se oggi l’elettronica italiana continua a poter
contare su una presenza industriale del calibro di STMicroelectronics e se l’accademia
italiana conserva prestigio e visibilità nel settore lo si deve anche a quelle
iniziative, all’azione sistemica di supporto alla ricerca e allo sviluppo
industriale che in quei decenni, per molti versi molto più complicati di quelli
che viviamo, il Paese e le sue classi dirigenti seppero mettere in campo. L’Italia
deve ritornare a pensare e ad agire in grande. Ne saremmo capaci.

 

Che
effetti ha sull’Università la crescente deindustrializzazione del paese,
soprattutto nel settore delle tecnologie?

Lo sviluppo delle facoltà e degli Atenei
tecnologici ha risentito inevitabilmente della evoluzione del settore
manifatturiero e industriale. Il repentino processo di deindustrializzazione
che ha fatto scomparire progressivamente grandi aziende del calibro di
Olivetti, Telettra, GTE, eccetera nella sostanziale indifferenza del potere
pubblico, fa parte degli errori storici delle nostre classi dirigenti. Per
troppo tempo si è superficialmente affermato che la tecnologia può essere,
all’occorrenza, acquistata, delineando la sostenibilità di un sistema economico
a basso tasso di tecnologia e manifattura. Se per tecnologia s'intende il
prodotto tecnologico, certamente è vero; esso può essere acquistato.  Ma la tecnologia abilitante - quel complesso di
conoscenze, tecniche e metodi che determinano il vantaggio competitivo di una
impresa e di un distretto industriale - assolutamente no, non si acquista. Questa
tecnologia bisogna essere in grado di svilupparsela, dominarla, nasce nei
laboratori di ricerca. Questa tecnologia non si vende a cuor leggero, non si
compra e non si trasferisce facilmente. Assieme a questa tecnologia si forma il
capitale umano indispensabile per gestirla, per farla progredire. Questi
cervelli bisogna attrarli, formarli e permetterne l’inserimento produttivo. Sostenere
la marginalità di tutto questo per il Paese è stato un errore fatale di cui molti
devono fare ammenda.

 

Come è stato vissuto e contrastato questo trend? Quali le ricadute
della ricerca universitaria?

Le Università italiane hanno reagito alla
progressiva scomparsa dei riferimenti industriali nazionali consorziandosi, proiettandosi
in Europa, misurandosi in una difficile competizione sul mercato della ricerca trans-nazionale.
Al tempo stesso, l’inevitabile difficoltà di accesso a infrastrutture ha limitato
grandemente la ricerca sperimentale. In alcuni casi si è riusciti a realizzare qualche
investimento importante, anche con il supporto di aziende, enti locali e
Fondazioni. Il Politecnico di Milano, con fondi propri, è riuscito a realizzare
la Galleria del Vento più grande d'Europa. Si tratta di una infrastruttura
abilitante così preziosa che è oggi insufficiente a fronteggiare le crescenti
richieste del mercato italiano. Più recentemente, a seguito di una donazione
Pirelli, abbiamo avviato la realizzazione di PoliFAB, una camera bianca dedicata
alla micro-fabbricazione di dispositivi. E’ una nuova sfida che vuole offrire
ai ricercatori la possibilità concreta di fondere conoscenze multidisciplinari
e tecnologie per realizzare sistemi miniaturizzati, ma anche per dar modo ai
nostri studenti di avere una esperienza diretta di queste realizzazioni.

 

Quali
sono i punti di forza e le opportunità di sviluppo? Quali invece i punti di
debolezza?

Il punto di forza delle Università italiane è
l’Italia, un Paese a cui il mondo riconosce una qualità della vita invidiabile
e un complesso di bellezze artistiche, culturali e naturali eccezionale. Un
Paese attrattivo per definizione, in cui tutti vorrebbero vivere e lavorare. Il
punto di forza delle Università italiane sono gli italiani, con la loro
genialità, il loro spirito pragmatico, la loro capacità di trovare soluzioni
originali. Ma le Università globali con cui vorremmo competere sono autonome,
libere, attraggono studenti, dottorandi e professori, finanziamenti pubblici, ricercatori
illustri, premi Nobel. E questo genera ricchezza e spinta propulsiva per il
territorio. Per muoverci nella stessa direzione avremmo bisogno di libertà e
investimenti da accompagnare, naturalmente, con assunzione di responsabilità
dei decisori e processi trasparenti di valutazione.


Il
rapporto tra università, industria, mondo della finanza e delle istituzioni ha
assunto un respiro sempre più strategico: qual è lo stato dei rapporti tra
Università e industria?

Oggi le Università italiane traggono una parte
importante del proprio finanziamento dal rapporto con le aziende. Al
Politecnico di Milano il finanziamento totale che proviene da privati è oltre
il 70% di tutto il finanziamento della ricerca. Il coordinamento con le realtà
territoriali è quindi molto buono. Indubbiamente interfacciarsi con la realtà
italiana di PMI non è semplice. C’è frammentazione di rapporti che rende
difficile le interazioni e soprattutto l’impostazione di programmi di ricerca a
medio termine. Per ovviare a questi limiti l’Ateneo ha definito più chiaramente
i terminali di interazione. I Dipartimenti si occupano di presidiare la ricerca
specialistica e le relative infrastrutture; i Consorzi hanno capacità di
erogare servizi e supporto professionale all’innovazione aggregando,
all’occorrenza, competenze disciplinari diverse; la Fondazione Politecnico mette
in campo la sua rete di alleanze con enti e aziende. Sarebbe auspicabile avere
interlocutori aggregati anche dal lato impresa, che siano in grado di identificare
tematiche di interesse comune a più attori e che canalizzino investimenti
collettivi su sviluppi tecnologici sfidanti.

 

Cosa sta facendo l’Università
per favorire l’occupazione dei laureati e con quali ricadute?

L’Università si fa carico dell’orientamento verso
studenti e famiglie, per verificare la corrispondenza tra aspirazioni dei
singoli ed esiti formativi e per evitare gli abbandoni precoci. Ai laureati gli
Atenei offrono un accompagnamento al lavoro attraverso servizi di “placement”
che favoriscono il contatto con aziende ed enti. Al Politecnico, ad un anno dal
titolo, sono occupati circa l’85% di coloro che hanno conseguito la laurea
triennale e che cercano lavoro. La percentuale sale a oltre il 90% di coloro
che conseguono la laurea specialistica. Un numero crescente trova occupazione
all’estero, dove si offrono stipendi iniziali più alti e migliori prospettive
di carriera. E’ noto che per altre facoltà l’assorbimento occupazionale è più
difficile a causa di richieste più limitate da parte del mercato del lavoro, ma
anche per la ridotta propensione alla mobilità dei laureati.

 

Non v’è dubbio che una valutazione più attenta
della qualità della formazione erogata dai corsi di studio e la verifica della
rispondenza degli obiettivi formativi agli sbocchi occupazionali sarebbe
sacrosanta. Su questi aspetti sono oggi chiamati a vigilare il Ministero,
l’Agenzia per la valutazione (ANVUR) e il Consiglio universitario nazionale
(CUN). Tuttavia, è assolutamente chiaro che questi processi, così come delineati
dai recenti decreti attuativi, si riferiscono a meccanismi formali e
farraginosi di cui è facile prevedere l’assoluta inefficacia. Bisogna avere il
coraggio di delineare schemi più diretti: il finanziatore pubblico da un lato
che definisce i requisiti di accreditamento, un’agenzia veramente indipendente
per la valutazione dei risultati, l’università autonoma dall’altra che,
assumendosene la responsabilità, definisce l’offerta formativa. Sembrerebbe
facile, ma siamo in grado di complicare tutto generando burocrazia inutile e asfissiante.

 

Si parla di programmi di spin
off, di start up e di acceleratori d’impresa: di cosa si tratta?

L’Università, oltre alla formazione e alla ricerca,
ha un terzo compito: trasferire le conoscenze prodotte negli Atenei all’esterno,
per promuovere lo sviluppo e l’avanzamento della società. In questo contesto
gli Atenei si sono dotati di unità di trasferimento tecnologico per gestire in
modo appropriato i risultati della ricerca, valorizzandoli in collaborazione
con il sistema economico. Accanto alla gestione della proprietà intellettuale,
queste iniziative si dedicano anche a sostenere creazione di imprese spin-off o
start-up, nate dalle competenze dei ricercatori e degli studenti, fornendo
servizi, attività di formazione e accompagnamento presso investitori privati e
fondi.  Si tratta di sforzi rilevanti che
le Università compiono per favorire la rigenerazione del tessuto
imprenditoriale e amplificare le ricadute sul territorio dell’investimento nella
ricerca pubblica.

ll Politecnico di Milano è stato tra i primi Atenei
italiani a sostenere il trasferimento imprenditoriale delle competenze
sviluppate dalla ricerca all'interno dell'università. Nel 2000 l’Ateneo crea
l'Acceleratore d'Impresa che gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano,
offre alle start-up le infrastrutture e i servizi necessari alla loro crescita.
Recentemente l’iniziativa è stata potenziata, dando vita a PoliHub con
l’obiettivo di riuscire a supportare oltre 100 startup innovative, realizzando
un distretto tecnologico in zona Bovisa.

 

Quest’anno cade il 150°
anniversario del Polimi: che significato ha questo appuntamento?

Nell’800 le Università Europee hanno generato gran
parte del sapere del tempo. I territori e le classi dirigenti si curavano di
far nascere e crescere università di pregio. Il 29 novembre 1863 nacque il
Politecnico con la grande missione di sostenere lo sviluppo economico e
tecnologico della regione e del Paese. Un'idea alta, che continua ad essere
assolutamente attuale. Realtà industriali quali ad esempio Falck, Pirelli, Montedison
non avrebbero avuto il successo che conosciamo senza la feconda interazione con
il Politecnico, con il quale condividevano strategie e uomini. Il compleanno
del Politecnico e la contemporanea ricorrenza del 50° anniversario del Nobel a Giulio
Natta offrono momenti pubblici per riaffermare la centralità della nostra missione
fondativa, del patto costituente che abbiamo con il nostro territorio e con il
Paese tutto. Il Politecnico è pronto a giocare un ruolo di primo piano nello
stimolare e accompagnare la rinascita italiana.

 

Quali risposte può dare
l’università per rafforzare la propria credibilità verso il mondo esterno?

L’Università, come molte istituzioni di questo
Paese è chiamata a garantire sempre maggiore trasparenza, efficienza e
riconoscimento del merito. Ci si deve aprire ai processi di valutazione. Ma
questi non devono assumere connotati censori. Devono invece sostenere strategie
adeguate di allocazione ottimale del personale per cui è necessaria
flessibilità e semplificazione.

L’Università ha diverse funzioni e ciascuna di
queste necessita di professionalità, dedizione ed entusiasmo. In questo
contesto le energie della docenza, dei ricercatori e del personale tecnico amministrativo
devono poter essere sfruttate al meglio. Ma per far questo è indispensabile che
l’Università sia liberata dalle rigidità, dalla burocrazia e da norme bizantine
capaci di piegare la volontà e l’entusiasmo di chiunque. In questo l’Università
italiana soffre dei mali di tutti i servizi pubblici del Paese. Il peso di
regole formali da soddisfare “ex-ante” per non valutare “ex-post” i risultati. La
liberazione dell’Università sarebbe un passo determinante ed emblematico per liberare
le energie del Paese.


Che tipo di segnale si sente
di lanciare a imprese e istituzioni?

Per essere tra i Paesi avanzati, l’Italia, la
società italiana, le classi dirigenti, le imprese devono porre e dimostrare una
attenzione ben diversa all’università, alla ricerca, alla scienza e alla
tecnologia. Questi anni di pesante crisi strutturale sta cambiando la
percezione di tutti verso il tessuto universitario. Se ne comprende nuovamente
la centralità come motore primo del progresso e della mobilità sociale.
L’auspicio è che si passi rapidamente ai fatti.

 

E agli studenti?

I giovani italiani non devono aver paura del
futuro. Devono solo avere il coraggio di costruirlo con volontà e
determinazione. Devono prenderselo e farlo proprio. Hanno tutte le condizioni
per potercela fare. Tra queste la fruibilità di percorsi formativi adeguati. Si
lascino guidare dalle loro passioni e aprano le ali per volare guidati dal loro
entusiasmo.

 

 

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