Il Chips Act, iniziativa della UE a sostegno della produzione locale di semiconduttori verso la fase operativa, deve fare i conti anche con critiche e contromosse
Dopo gli annunci e le relative buone intenzioni, per il Chips Act dell’Unione Europea è arrivato il momento di iniziare a dimostrare la volontà di fare sul serio. Dai primi segnali, le premesse sembrano essere decisamente solide. Anche perché di Chips Act si parla anche dall’altra sponda dell’Atlantico, mentre i fornitori storici asiatici non stanno certo a guardare.
Lanciata la sfida, non c’è quindi tempo da perdere in nazionalismi o discussioni puramente strumentali. Come hanno insegnato gli ultimi tre anni, il modello organizzativo considerato il più conveniente per tutti è crollato sotto il fuoco incrociato di pandemia, crisi della supply chain e invasione dell’Ucraina e perciò bisogna intervenire.
Nell’ultima parte del 2022 si è lavorato duramente a livello UE per trovare l’accordo definitivo. Prima di passare le consegne alla Svezia, la presidenza di turno ceca ha cercato di rimodulare alcuni punti fondamentali, anche per fare in modo di allargare la portata del provvedimento e non limitarlo agli stati più organizzati sotto il profilo produttivo.
Fermo restando l’obiettivo di arrivare nel 2030 a coprire il 20% della produzione mondiale di chip, contro l’attuale 5%, la quesitone è quale strada seguire. In linea di massima, si tratterà di agevolazioni per chi produce direttamente all’interno dei confini comunitari. Dal semplificare alla burocrazia a veri e propri sostegni per la crescita, l’orientamento è ormai definito.
Le incertezze riguardano semmai il tipo di impianto da favorire. Se fino a oggi si è parlato esclusivamente dei chip più sofisticati, l’intenzione più recente sembra voler allargare le maglie anche ai più standard, a partire da quelli destinati alle automobili. Offrendo così un sostegno anche a un altro settore molto importante per il vecchio continente.
Più in generale, si consolida la convinzione di dover diventare più indipendenti da imprevisti o da improvvisi cambi di politica nei Paesi considerati meno affidabili, o più in generale da una supply chain all’improvviso rivelatasi molto più vulnerabile di quanto si fosse accettato. Per questo, i destinatari dei contributi dovranno anche impegnarsi, e dimostrare di poterlo fare, ad adattare rapidamente la propria produzione a seconda delle necessità.
A supporto della necessità di trovare un accordo sul Chips Act senza perdere tempo, i dati prodotti dal mondo industriale. Entro lo stesso 2030 indicato come primo obiettivo delle misure, la relativa domanda in Europa è prevista raddoppiare. Per arrivarci però, non serve solo incentivare la produzione. In questo caso la UE può mettere in campo uno dei propri punti di forza, coordinare e sostenere l’attività di ricerca e la relativa formazione tra le numerose realtà sul territorio, sviluppando un vero e proprio ecosistema intorno al ciclo di vita dei semiconduttori
Gli altri non stanno a guardare
Dietro le dichiarazioni di facciata però, un progetto del genere non può fare a meno di destare reazioni, su entrambi i lati della prospettiva geografica. A partire da Ovest, dove negli USA cresce la preoccupazione per il futuro di un settore guidato da Intel, capace di coprire il 50% del fabbisogno mondiale di chip nel 2015 e oggi in progressivo calo al 46%. Con la prospettiva di arrivare al 36% nel 2030. Al momento, gli occhi sono puntati soprattutto sul potenziale ancora non del tutto espresso dell’Asia, ma anche i segnali di vita dell’Europa non vengono certo trascurati.
Secondo uno studio combinato di Semiconductor Industry Association e Boston Consulting Group, negli USA il Chip Act dovrà mettere in campo una cifra di una trentina di miliardi di dollari nel giro di dieci anni. Cifra decisamente importante, quasi trascurabile però se si considera il valore complessivo del mercato pari a 556 miliardi di dollari nel 2021. Inoltre, si parla del settore al quale viene destinata la metà di tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Rispetto all’Europa, gli USA hanno il vantaggio di aver mantenuto in Patria una quota superiore di produzione e non dover quindi ricostruire praticamente da zero il relativo ecosistema. D’altra parte, questo ha comportato alcuni compromessi, a partire da un minore impegno sulla progettazione, oggi saldamente nelle mani di Taiwan dal punto di vista dell’innovazione.
Fondamentale quindi, per tutti, non limitarsi a iniziative di sostegno alla produzione. C’è un divario importante da recuperare in termini di competenze, impossibili da colmare con provvedimenti e agevolazioni, dove serve invece una strategia almeno di medio-termine.
Anche perché, le cifre del Chips Act USA possono ingannare. Mentre in Europa e in Asia si prevede di finanziare il 30% dei costi di progettazione, i fondi previsti dall’amministrazione Biden riuscirebbero a coprire solamente il 13% .
Perché potrebbe non funzionare
Nel mezzo, c’è naturalmente spazio anche per qualche voce discordante. Fuori dai giochi quando si parla di alleanze, e soprattutto di iniziative UE, la Gran Bretagna non si tira indietro da un’analisi non certo compiacente. Secondo Tech Monitor infatti, i 45 miliardi di euro messi sul piatto dal Chips Act di Ursula von der Layen sono ampiamente insufficienti per raggiungere anche solo in parte gli obiettivi.
Il ragionamento è frutto della situazione di partenza, dove l’Europa comunitaria utilizza il 20% dei semiconduttori, a fronte di una produzione attualmente limitata al 9%. Il report Deloitte dal quale sono ricavati questi dati indica anche come nel 2020, l’importazione di componenti dalla Cina abbia coperto il 63% del fabbisogno, il doppio rispetto al 2017.
In una simile scala di crescita, anche considerando gli importanti investimenti per nuovi impianti produttivi soprattutto in Germania, la previsione indica il 2030 come una data troppo ottimista. D’altra parte, il Commissario europeo per il commercio Valdis Dombrovskis, non ha del tutto chiuso le porte all’Asia, anche solo come fornitore di materie prime. Il vero obiettivo semmai è giocare una partita maggiormente alla pari, diminuendo la dipendenza da pochi fornitori o produttori con visioni di mercato e strategie divergenti rispetto a quelle accettate a Ovest.
Una ricerca della stessa UE ha quantificato in oltre trecento i componenti necessari alla produzione di chip, per un migliaio di passaggi nel processo produttivo. Attualmente, le materie prima arrivano da circa 16mila fornitori in tutto il mondo, con transiti anche di settanta frontiere prima di giungere a destinazione.
Diventa quindi più facile intuire il potenziale di rimettere in moto la produzione continentale. Oltre all’urgenza di rendersi meno dipendenti da variazioni di umore altrui, nel lungo periodo anche la prospettiva di ottimizzare processi e costi in misura importante.
Difficile quindi, se non impossibile pensare a una UE indipendente e autonoma nelle decisioni già nel 2030. Anzi, per quella data Deloitte non vede grandi cambiamenti. D’altra parte, riconosce certamente la possibilità di porre solide fondamenta per l’auspicato cambiamento. Però, su un periodo più lungo. La diffidenza inglese nei confronti dell’Europa emerge ancora di più nella conclusione dello studio. Il richiamo a una situazione simile, di una realtà politica con l’ambizione di rendersi autonoma in una produzione, è praticamente solo la Cina. A oggi, difficile da definire un successo, soprattutto in prospettiva futura, a fronte di una spesa impensabile per le disponibilità Comunitarie.
Dal punto di vista pratico, questo significa prima di tutto una cosa. I 43 miliardi di investimento per il Chip Acts sono ampiamente sottostimati. La stima di Kurt Sievers, amministratore delegato di NXP Semiconductors è di gran lunga superiore, qualcosa come 500 miliardi di euro. In pratica, un investimento dieci volte tanto per raggiungere il traguardo di pesare sul mercato con un 20%
Il ragionamento è piuttosto semplice. Si tratta di moltiplicare la capacità produttiva almeno per tre, se non oltre. In aggiunta alle risorse per costruire gli impianti produttivi, dove con Intel in Germania si vedrà coperto il 40% dell’investimento, bisogna recuperare competenze progettuali e di ricerca, non solo quelle operative.
Qua il divario soprattutto con Taiwan e Corea del Sud è decisamente marcato. La via per avvicinarsi passa inevitabilmente per un lungo periodo di formazione e ricerca, oppure da una costosa capacità di attirare talenti, in grado anche di trasmettere le conoscenze.
La sfida è ormai iniziata e tirarsi indietro non solo non è possibile, ma non avrebbe neppure senso. Si tradurrebbe subito in una dimostrazione di debolezza di fronte alla quale si farebbe solo il gioco degli avversari, aumentandone ancora di più il potere decisionale. Meglio augurarsi allora di vedere partire al più presto il Chips Act, inteso come realizzazione di impianti e avvio di produzione, trovando nel frattempo le ulteriori risorse necessarie a farlo crescere secondo le aspettative.