Chip Shortage: una via lunga e tortuosa

Chip Shortage

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Chip shortage: la catena di eventi allunga inevitabilmente il tempo di soluzione per i problemi di produzione e fornitura di microchip. Mentre emergono i primi punti deboli di strategie alternative

Con il passare dei mesi, le speranze di vedere risolta la crisi dei microchip entro la fine dell’anno assumono sempre più le fattezze di illusioni. Ad alimentare le previsioni meno ottimiste è una figura di primo piano del settore, il CEO di Intel Pat Gelsinger. Come se non bastasse, iniziano anche a emergere i punti deboli nel progetto USA di aumentare la produzione interna e diventare così più autonomi anche su questo fronte. Un segnale da non sottovalutare per gli analoghi progetti europei.
Per quanto riguarda Intel, durante una recente intervista alla CNBC sul fronte della carenza di componenti è addirittura emersa una situazione stazionaria almeno fino alla fine del prossimo anno, rimandando i segnali di normalità a non prima del 2024. Considerazioni frutto di una serie di valutazioni interne, sulla base di quanto raccolto anche dai propri fornitori.
Sono diversi i fattori che stanno alla base dello scenario. Alle complicazioni ormai note della pandemia, soprattutto con le ripercussioni sulle attività delle aziende in Asia e sui trasporti, si stanno manifestando le conseguenze dell’attacco militare della Russia all’Ucraina. In questo caso, i problemi sono legati soprattutto a materie prime nei processi di realizzazione dei microchip, a partire da palladio e neon.
Tutto questo è andato a combinarsi proprio in un momento di forte crescita nella domanda, soprattutto nel settore automotive. Insieme alla produzione di smartphone, una fetta consistente della domanda. Una serie di problemi, dalla cui combinazione rischia di scaturire un effetto cascata.
Come riporta AGI, per Ola Källenius, CEO di Daimler, la carenza di microchip è addirittura una delle sfide principali dello scenario attuale. In modo particolare sul fronte asiatico, mercato importante per l’azienda. Anche la più internazionale Volvo non se la passa molto meglio. Il relativo CEO Jim Rowan prevede infatti almeno un altro trimestre critico.
La stessa Apple è in difficoltà. Ad ammetterlo è Tim Cook in persona. Durante la pubblicazione dei dati trimestrali, il CEO ha ammesso di essere in sofferenza sul fronte delle forniture, in particolare nel corso dell’ultimo trimestre. Una stima dell’azienda indica in una cifra tra i quattro e gli otto miliardi di dollari i danni per le mancate vendite nel corso dell’anno.
Non entra invece nel merito delle cifre Pekka Lundmark, CEO di Nokia. Il quale conferma, tuttavia, una crescita decisamente inferiore alle potenzialità di mercato se l’approvvigionamento dei componenti avesse rispettato i tempi.
A complicare la situazione c’è il propagarsi dei problemi. Iniziano a essere infatti in difficoltà anche i produttori di macchinari per realizzare i microchip. A tempi di consegna e installazione già di per sé lunghi, si aggiungono ora altri rinvii. Dove prima si parlava di mesi, ora la media va abbondantemente sopra l’anno, per arrivare a una media di due anni e, addirittura, punte stimate di tre anni.
Oltre la stessa Intel, in questo caso la fonte è un altro importante nome del settore. Si tratta di TSMC, tra l’altro uno dei principali fornitori di Apple.

Chip Shortage

Dal chip shortage al talent shortage

In questi giorni però, dell’importante produttore di Taiwan si è parlato anche per una questione di portata mediatica decisamente maggiore. In un’intervista rilasciata al sito The Register, il fondatore di TSMC Morris Chang non esita a definire il progetto USA di aumentare la produzione interna come «Un dispendioso e costoso esercizio di futilità».
Per certi versi, una dichiarazione da prendere con la dovuta prudenza. Nel caso fosse realizzato il progetto americano, così come quello Intel di investire in Europa e lo stesso Chips Act della UE, le conseguenze per TSMC non sarebbero certamente trascurabili.
Tuttavia, gli elementi concreti su cui riflettere non mancano. Un argomento in particolare sembra fondato. Difficile, infatti, dare torto a Chang quando afferma come tra gli Anni ‘70 e ’80, negli USA la specializzazione degli operai in elettronica sia stata trascurata in favore di mansioni più remunerative. Uno scenario questo facilmente applicabile anche alle nostre latitudini.
Oggi, quindi, sarebbe di conseguenza molto difficile riuscire a recuperare nel giro di poco tempo competenze trascurate per decenni. Senza dimenticare poi il fatto che i costi potrebbero essere tali da rendere comunque meno conveniente la produzione domestica, anche in presenza di tutti gli ostacoli attuali, logistici e politici.
Una delle ragioni dell’attuale dominio di Taiwan nella produzione di semiconduttori viene ricondotta proprio a tale dedizione costruita nel tempo, considerando poi l’elevato livello di specializzazione, grazie al quale è possibile produrre qualsiasi circuito stampato per qualsiasi cliente.

I conti potrebbero non tornare

Il fondatore di TSMC va però oltre. Alla base di qualsiasi progetto imprenditoriale non può infatti mancare una redditività; punto dolente questo per economie evolute come gli USA, dove per esperienza diretta i costi della manodopera sono un limite concreto.
L’impianto attivo in Oregon facente capo alla stessa organizzazione resta certamente strategico ed è in attivo. Non abbastanza però da poter ipotizzare una sua espansione. La vera utilità è infatti nella fase di progettazione, dove Chang non ha difficoltà ad ammettere di avere competenze molto limitate in Patria.
Discorso naturalmente ribaltato quando si parla di produzione in serie. In questo caso più ancora del chip shortage, il vero nodo di fronte al quale i progetti delle nazioni Occidentali rischiano di arenarsi, è una sorta di talent shortage. In pratica, i costi da mettere in preventivo vengono indicati superiori almeno del 50%.
Tra gli addetti ai lavori negli USA non manca chi è d’accordo con Chang. Già oggi, sono indicate come diverse migliaia le posizioni vacanti nella produzione di semiconduttori. La stessa TSMC non ha portato a termine un progetto di 12 miliardi di dollari avviato con la benedizione di Donald Trump per uno stabilimento in Arizona, nonostante la prospettiva di un contributo pubblico, proprio perché non conveniente.
Ciò non toglie, tuttavia, prospettive comunque al rialzo per la produzione interna americana. Difficilmente, però, nel rispetto delle previsioni e comunque non abbastanza da risultare competitivi con il mercato attuale.
In maniera forse un po’ cinica, ma certamente realistica, se anche la ragione di questo progetto fosse legata soprattutto a questioni politiche e anche al rischio di un’invasione di Taiwan da parte della Cina, al riguardo Morris Chang non ha dubbi: «I problemi di cui gli Usa dovrebbero preoccuparsi a quel punto sarebbero ben altri».

Dritti per la propria strada

Il dibattito probabilmente è solo agli inizi e la vicenda è ancora tutta da vivere. Al momento, però, non c’è alcun segnale di ripensamento. Per quanto riguarda l’Europa, Intel ha confermato le intenzioni manifestate lo scorso marzo per un piano investimenti nel Vecchio Continente.
In gioco ci sono cifre non trascurabili e relative ripercussioni. Si parla infatti di 80 miliardi di euro in dieci anni, 4,5 dei quali destinati all’Italia. Anche se la lunga e complessa macchina non si è ancora messa in moto, una volta avviati i lavori, sarà più difficile un ripensamento.
I primi 17 miliardi di euro sono infatti destinati alla realizzazione, in Germania, di un impianto all’avanguardia di dimensioni americane per la produzione di semiconduttori. Inoltre, la creazione di un centro per la ricerca e sviluppo in Francia. Insieme a Irlanda, Polonia e Spagna, l’Italia sarà impegnata nella produzione, nei servizi di fonderia e nelle fasi di supporto alla produzione, oltre a contribuire alla ricerca e allo sviluppo.

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