Ombre minacciose si stagliano all’orizzonte nel rovente stretto di Taiwan. Dozzine fra aerei e navi militari, a cui si aggiungono nuove unità da sbarco delle forze armate della Repubblica Popolare Cinese stanno stringendo intorno all’isola ribelle i tentacoli di un’attività militare che potrebbe trasformarsi, entro qualche ora, in una vera e propria operazione di sbarco.
Eppure, Taiwan e la sua popolazione sembrano vivere la crescita della tensione nello stretto come nient’altro che una semplice routine a cui, ormai, da più di settant’anni, sembrano abituati.
Altre sono le preoccupazioni al momento, per un Paese che rappresenta il 60% della produzione mondiale di semiconduttori e il 90% a livello mondiale per lo sviluppo e la produzione di semiconduttori avanzati. Non ultime le recenti misure di guerra commerciale esposte ieri sera dal presidente americano Donald Trump, che castigheranno l’isola orientale al pagamento del 32% di dazi sull’export verso gli USA (solo due punti percentuali in meno rispetto a quelli imposti al grande nemico degli Stati Uniti, la PRC, che dovrà pagare il 34% sui prodotti esportati verso gli Stati Uniti). Una cosa che ha irritato e non poco le autorità politiche taiwanesi.
Dazi ingiusti, poca trasparenza e tante, troppe parole
Lo Executive Yuan di Taiwan (l’organo esecutivo presieduto dal Premier Cho Jung-tai), ha espresso forte opposizione ai dazi e ha annunciato l'intenzione di presentare un formale reclamo a Washington. In una nota ufficiale, il Gabinetto ha definito i nuovi dazi americani, in vigore dal 9 aprile, come “completamente irragionevoli” e “altamente criticabili”.
Michelle Lee, portavoce del Gabinetto, ha dichiarato che il governo di Taiwan si impegnerà a far sentire la propria voce presso il Rappresentante commerciale degli Stati Uniti e continuerà i negoziati per “salvaguardare gli interessi della nazione e delle sue industrie”.
Durante la conferenza stampa di ieri a Washington, nel giardino delle rose della Casa Bianca, Trump ha comunicato che una tariffa globale del 10% sarà applicata alla maggior parte delle importazioni negli Stati Uniti, con effetto dal 5 aprile. Tuttavia, Taiwan e diversi altri Paesi, inclusi importanti partner commerciali degli Stati Uniti, si troveranno a dover affrontare dazi significativamente più elevati. Questa misura è stata descritta da Trump come un tentativo di affrontare relazioni commerciali “squilibrate”, diminuire i deficit e rafforzare la capacità produttiva americana.
Tra le misure annunciate, la più evidente è la “tariffa reciproca” del 32% sulle merci taiwanesi importate negli Stati Uniti, che inizierà a decorrere il 9 aprile. Trump ha giustificato le “tariffe reciproche” come un atto nei confronti dei Paesi che hanno “imposto dazi, manipolato le valute e adottato altre barriere commerciali contro gli Stati Uniti”. E fra questi ci siamo anche noi europei, con un bel 20% di dazi da dover gestire.
Nel comunicato, Lee ha sostenuto che la tariffa del 32% è “ingiusta per Taiwan”, in quanto “non riflette la reale situazione commerciale e economica” tra i due Paesi. Ha evidenziato che le esportazioni taiwanesi verso gli Stati Uniti hanno registrato una crescita significativa negli ultimi anni, principalmente a causa dell’aumento della domanda per semiconduttori e prodotti tecnologici legati all’intelligenza artificiale. Appunto, semiconduttori e prodotti tecnologici legati all’intelligenza artificiale…
Lee ha aggiunto che molte aziende taiwanesi del settore tecnologico hanno spostato la produzione dalla Cina a Taiwan, in risposta ai dazi imposti sulle importazioni dalla Cina durante il primo mandato di Trump e alle restrizioni statunitensi relative alla tecnologia per motivi di sicurezza nazionale. In questo contesto, ha sottolineato Lee, Taiwan non dovrebbe essere soggetta a tariffe elevate, considerando il suo “notevole contributo all’economia e alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Inoltre, ha informato che il governo taiwanese ha attivamente contrastato il trasbordo da parte degli esportatori, dove le merci vengono spedite attraverso terzi per alterare il loro Paese d'origine, al fine di ottenere dazi inferiori.
Minacce, marce indietro e difficoltà d’interpretazione
Una polemica accesa dunque che tuttavia sembra essersi in parte sgonfiata – almeno per quello che riguarda l’elettronica – con una rilettura più attenta dei fiumi di parole a cui ci ha abituato il presidente americano, tra alti e bassi umorali, accuse e minacce di terribili ritorsioni nei confronti di Paesi da sempre alleati e spesso partner commerciali di grande rilevanza, come Taiwan, appunto: la Casa Bianca ha specificato infatti che alcuni beni, come rame, prodotti farmaceutici, semiconduttori, legname, energia e “alcuni minerali critici” saranno esentati dai nuovi dazi.
L’esenzione dei semiconduttori dall’inasprimento dei dazi commerciali preserva dunque il settore dall’ondata di rincari più temuti, limitando l’applicazione dell’aliquota base del 10%. Una tregua inaspettata, frutto del peso geopolitico dell’industria tecnologica e degli investimenti miliardari di colossi come TSMC, che hanno agito da argine alle pressioni protezionistiche.
Tuttavia, la tempesta non è del tutto evitata. L’ombra delle ricadute indirette si allungherà su due fronti: l’elettronica di consumo, incatenata alle filiere produttive cinesi, e i segmenti industriali esposti alle fluttuazioni del mercato globale. Il vero tallone d’Achille risiede nell’iperdipendenza dalla Cina, snodo cruciale della catena del valore. Qualsiasi escalation tra potenze – dai blocchi alle restrizioni – potrebbe innescare un effetto domino: componenti critici ridotti a goccia, costi alle stelle e tempi di consegna insostenibili.
In questa partita a scacchi, i semiconduttori restano pedine strategiche: protetti in superficie, ma vulnerabili alle convulsioni di un sistema interconnesso dove ogni mossa commerciale genera tsunami a migliaia di chilometri di distanza.


