Mouser Electronics, attraverso la serie Empowering Innovation Together e il podcast Tech Between Us, esplora il mondo delle interfacce cervello-computer: una tecnologia che promette di restituire il movimento, la comunicazione e persino la voce a chi l’ha persa. Un viaggio tra elettronica, etica e possibilità.
Cosa accadrebbe se potessimo comandare una macchina solo con il pensiero? Non si tratta più di fantascienza, ma di una frontiera reale della tecnologia contemporanea. Le interfacce cervello-computer (BCI – Brain-Computer Interface) rappresentano una delle più affascinanti connessioni tra mente umana e mondo digitale. Una tecnologia che non solo estende le nostre capacità, ma promette di ridisegnare i confini tra corpo, pensiero e intelligenza artificiale.
A raccontare l’evoluzione di questo campo in pieno fermento è Mouser Electronics, che attraverso la serie Empowering Innovation Together (EIT) mette a fuoco sfide, opportunità e implicazioni dell’ingegneria applicata alle BCI, un mercato che passerà da 2,4 a 6,5 miliardi di dollari nel periodo 2024-2030, per un tasso di crescita annuo composto del 18,2%. Sistemi sofisticati, progettati per stabilire una comunicazione diretta tra il cervello e dispositivi esterni, stanno già cambiando la vita di chi convive con disabilità motorie, disturbi della comunicazione e, in prospettiva, potrebbero persino potenziare le funzioni cognitive.
Il cervello come interfaccia
Le BCI si basano su un processo affascinante: rilevano l’attività cerebrale tramite elettrodi, ne decodificano i segnali elettrici con algoritmi avanzati di elaborazione del segnale e trasformano tutto questo in comandi eseguibili. Questo significa, ad esempio, permettere a una persona paralizzata di muovere un braccio robotico oppure, a chi ha perso la capacità di parlare, di esprimersi di nuovo attraverso sistemi digitali.
La posta in gioco è altissima, non solo in ambito medico, ma anche in settori come l’educazione, l’industria, la difesa. E proprio su queste prospettive si concentra il podcast Tech Between Us, dove Raymond Yin, direttore dei contenuti tecnici di Mouser, dialoga con il neurologo Dan Rubin del Massachusetts General Hospital. «Le BCI non leggono i pensieri — precisa Raymond Yin — ma interpretano pattern neurali. Non sappiamo cosa stia pensando una persona, ma possiamo capire, attraverso modelli matematici, che sta cercando di muovere un braccio o pronunciare una parola».
Queste parole sono condivise da Rubin, che lavora con il BrainGate Consortium su pazienti affetti da SLA, lesioni spinali e ictus del tronco encefalico: condizioni in cui la corteccia cerebrale resta intatta, anche se il corpo non risponde. «Il cervello continua a generare i comandi — spiega Rubin — e noi possiamo leggerli e tradurli in azioni reali».
Le BCI impiantate registrano segnali su centinaia di canali, analizzati in tempo reale per individuare impulsi elettrici specifici, chiamati spikes, e convertirli in movimenti del cursore o in sequenze di testo. In uno studio sorprendente, Rubin ha monitorato durante il sonno un paziente che aveva usato la BCI per giocare a una versione del gioco “Simon”. Durante il sonno profondo, il cervello del paziente ha continuato a “ripetere” lo schema imparato, dimostrando che le memorie motorie venivano consolidate anche in assenza di stimoli esterni. «È stato emozionante — racconta Rubin — vedere la mente continuare ad apprendere mentre il corpo dormiva. Una finestra sulle dinamiche della memoria che non avevamo mai avuto».
Anche nei casi di ictus corticali, Rubin ha osservato che il cervello riesce a generare segnali utili anche attraverso l’emisfero non danneggiato, aprendo nuove possibilità per l’uso delle BCI in pazienti colpiti da forme comuni di paralisi.

Interfacce neurali: l’elettronica che ascolta il cervello
Dietro ogni interfaccia cervello-computer c’è una sfida ingegneristica estrema. I segnali neurali raccolti dai microelettrodi sono dell’ordine di pochi microvolt e richiedono sistemi elettronici a bassissimo rumore. Le unità di acquisizione devono campionare a decine di kilohertz, su centinaia di canali, senza perdere fedeltà.
Il primo nodo critico è proprio la conversione analogico-digitale: servono ADC ad alta risoluzione, capaci di mantenere intatta l’informazione nei microsegnali raccolti. Ma non basta: i dati vanno poi filtrati, segmentati, analizzati. Per questo si impiegano DSP dedicati, FPGA o sistemi embedded progettati su misura.
Altro tema centrale è la miniaturizzazione. Una BCI impiantabile non può affidarsi a computer esterni. Deve includere tutto: sensori, circuiti di acquisizione, elaborazione dati e trasmissione. Il tutto in un modulo biocompatibile, leggero e a basso consumo, spesso impiantato nel cranio o nel torace del paziente. L’alimentazione è un ulteriore limite da superare: servono batterie ricaricabili per induzione, a lunga durata, e componenti in grado di operare con consumi ridottissimi.
A tutto ciò si aggiunge la latenza: tra il pensiero e l’azione non devono passare più di pochi millisecondi. Per questo si evita l’uso del cloud e si opta per l’elaborazione locale (on-device), una scelta che migliora anche la privacy dei dati neurali, altamente sensibili.
Tutti questi vincoli rendono lo sviluppo di una BCI un esercizio di alta ingegneria elettronica. Ed è proprio in questo ambito che aziende come Mouser mettono a disposizione componenti, moduli e know-how per aiutare ricercatori e progettisti a superare le barriere tecniche, una dopo l’altra.

Frontiere da attraversare, limiti da rispettare
Il potenziale delle BCI è straordinario, ma il loro sviluppo apre inevitabilmente questioni complesse. Dove finisce la mente e dove inizia la macchina? Chi controlla i dati più intimi che possediamo, ovvero quelli che provengono direttamente dal nostro cervello? «Tutte queste domande sono aperte — riconosce Raymond Yin — ma non possiamo far finta che la tecnologia non stia avanzando. È nostro compito accompagnarla con regole, trasparenza e rispetto».
Una delle sfide principali è quella dell’invasività: molti dei sistemi BCI più efficaci richiedono l’impianto di elettrodi direttamente nella corteccia cerebrale. È una procedura chirurgica, invasiva per definizione. La prospettiva, però, è quella di dispositivi sempre più discreti, autonomi e sicuri. «Il nostro obiettivo è rendere questi sistemi sempre più invisibili, wireless e biocompatibili — sottolinea Dan Rubin —. Lavoriamo per utilizzare tecnologie che restituiscano libertà, non che aggiungano nuove limitazioni».
In laboratorio, si lavora già su impianti completamente impiantabili, senza fili, con trasmissione a induzione e batteria ricaricabile, miniaturizzati al punto da poter essere installati sotto il cuoio capelluto o nel torace, come un pacemaker. Il vero traguardo è quello di integrare il sistema nel corpo senza farsi notare, come un’estensione naturale del sé. Questo pone comunque interrogativi nuovi: un’interfaccia impiantata, sempre attiva, può interferire con la percezione di sé? Quanto margine di controllo ha l’utente? E chi definisce quali dati possono essere estratti, elaborati o condivisi?
L’altro nodo riguarda la fiducia. Perché le BCI diventino parte della vita quotidiana, serve una relazione consapevole tra tecnologia e persona. Il funzionamento deve essere comprensibile, modificabile, reversibile. Contemporaneamente, gli algoritmi devono essere trasparenti e i dati protetti.
Infine, c’è un tema culturale: accettare che la connessione tra mente e macchina non ci rende meno umani. Al contrario, può diventare uno strumento di inclusione, capace di restituire autonomia a chi l’ha persa, e di ampliare le possibilità di espressione per tutti. «Le BCI non devono essere gabbie digitali, ma chiavi di libertà — afferma Rubin —. Devono rispondere ai bisogni dell’individuo, non imporre nuovi standard. La vera innovazione non è nella potenza del sistema, ma nella sua capacità di adattarsi alla persona».



