Intel è tra le prime aziende a tradurre in pratica proposta e obiettivi del Chips Act. Germania e Polonia i primi beneficiari, mentre l’Italia prende tempo e rischia di restare esclusa.
A più di un anno di distanza da quando il Chips Act dell’Unione Europea ha iniziato a prendere forma, si iniziano a vedere i primi risultati. La buona notizia è che il Vecchio continente sembra sulla strada giusta per riconquistare almeno una parte del ruolo da protagonista nel settore dei semiconduttori occupato fino alla fine del secolo scorso. La brutta notizia, invece, è che al momento l’Italia sembra restare ai margini. È questa una certezza, guardando all’avvio dei primi progetti, guidati da Intel, ma non solo; una paura rivolta anche al futuro, dove tra incertezze decisionali a livello politico e difficoltà nel confrontarsi su scala internazionale con la dovuta autorevolezza, le opportunità stanno progressivamente sfumando.
A lasciare l’amaro in bocca non è tanto la decisione Intel, tra i primi grandi nomi a muoversi, di rivolgere alla Germania la maggior parte delle attenzioni. Realisticamente parlando si tratta di una situazione ampiamente prevedibile e comprensibile. Il vero problema è il ruolo sempre più marginale dell’Italia anche rispetto ai progetti complementari a volte addirittura quasi snobbati dai Ministeri competenti.
Di fatto, si è rivelata decisiva la decisione del cancelliere tedesco Olaf Scholz di accogliere le richieste Intel e aumentare il contributo pubblico da sei a dieci miliardi di euro. In cambio, Intel avvierà ufficialmente la realizzazione di un primo impianto per la produzione di chip a Magdeburgo, aumentando a sua volta l’investimento dagli iniziali 17 miliardi di euro fino a trenta miliardi di euro. Com’è facile intuire, almeno una parte di questi dovranno rientrare dal ridimensionamento degli altri impianti previsti in Europa.
Rispetto a tutto ciò il progetto in Italia sembra sempre più allontanarsi. Il Gruppo USA ha infatti raggiunto un accordo per rimodernare l’impianto israeliano di Kyriat Gat, agli occhi americani geograficamente assimilato al sistema produttivo europeo, al quale si affianca la conclusione di un accodo per uno stabilimento di assemblaggio e test in Polonia dal valore di altri 4,5 miliardi di euro.
Il prezzo dell’indecisione
Al momento di scrivere invece, è tutto fermo per quanto riguarda l’Italia, dove il piano prevedeva un impianto dedicato al confezionamento. In pratica, l’idea di Intel è distribuire il più possibile il processo produttivo, così da coltivare buoni rapporti con più Stati, ma soprattutto diversificare le fonti dei contributi.
È questo un punto sul quale dalle nostre parti non c’è molto ascolto. Dopo tre giorni in Europa passati appunto a mettere a punto di persona i dettagli sugli altri progetti, l’amministratore delegato di Intel Pat Gelsinger e il suo staff sono tornati in sede senza incontrare nessun esponente del Governo in Italia, e senza neppure programmi per il futuro. Come riporta però il Corriere della Sera online, il Ministero delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, fa sapere come i colloqui in realtà continuino, anche se nella massima riservatezza. A parte il chiedersi perché, vista la trasparenza delle operazioni condotte nel resto della UE, ufficialmente resta la disponibilità nel mettere a disposizione di Intel tre miliardi di euro, a fronte di un investimento di dieci miliardi. D’altra parte, non è un segreto invece lo scarso entusiasmo del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per la natura dell’impianto, considerato meno prestigioso rispetto agli altri.
C’è però anche una versione ufficiale al riguardo. L’intenzione indicata è infatti quella di dirottare le risorse al servizio di un centro ricerca e sviluppo, secondo il Ministro prospettiva più concreta, dei progetti di ST Microelectronics di potenziare la propria filiera, senza abbandonare l’obiettivo ben più grande di attirare Samsung, se non addirittura TSMC.
Nel Chips Act non sventola il tricolore
A oggi, però, l’unico vero progetto pronto a diventare realtà resta quello di Intel, sui quali emergono i primi dettagli. Silicon Junction, è questo il nome del sito di Magdeburgo, lavorerà in sinergia con l’impianto esistente in Irlanda e in quell’altro da realizzare in Polonia. Proprio perché l’obiettivo finale è realizzare una filiera indipendente in Europa e i tempi di realizzazione sono comunque piuttosto lunghi, continuare a tergiversare in questo momento appare controproducente, se non autolesionista. Anche perché, come è facile immaginare, altri contendenti non tarderanno a farsi avanti.
Nel frattempo, quindi, il Chips Act sembra assumere soprattutto i colori della Germania, dove – peraltro – Intel ha seguito iniziative simili di società come Infineon Technologies e Wolfspeed, certamente non trascurabili dal punto di vista del prestigio e soprattutto dell’occupazione. Tutto ciò al punto da indurre a pensare come se, in realtà, anche TMSC sia realmente interessata a investire in Europa, come possa agire diversamente. Mentre in Italia di parla di contatti, Scholz ha già avviato una trattativa per un impianto a Dresda e relativo contributo di altri dieci miliardi di euro.
Anche fatte le debite proporzioni, pensare per l’Italia investimenti di pari livello rispetto a quelli tedeschi è oggettivamente arduo. Il divario resta comunque visibile. I 4,5 miliardi di euro teoricamente sul piatto restano comunque un’offerta poco allettante, anche per un impianto secondario. In questo senso, l’attenzione rivolta a Israele e Polonia dovrebbe indurre delle riflessioni a livello governativo. In particolare, considerandolo un importante investimento su migliaia di potenziali posti di lavoro, nell’impianto prima di tutto, ma anche nel relativo indotto. Sono queste considerazioni di lungo termine, per definizione difficili da attecchire dalle nostre parti.
Alla ricerca del 20% perduto
Dal punto di vista del settore, resta comunque la buona notizia di una reazione pronta e concreta alla serie di imprevisti degli ultimi tempi. Quel patrimonio di competenze grazie al quale negli Anni ’90 in Europa si produceva il 25% dei semiconduttori, grazie soprattutto al boom della telefonia mobile e le relative aziende scandinave, oggi probabilmente è andato per buona parte disperso.
Nulla impedisce, però, di poterlo ricostruire. Anche se oggi gli USA restano l’unica alternativa a Taiwan, le mosse di Intel confermano comunque un potenziale da sfruttare. Passare dall’attuale 10% al 20% ambito entro il 2030 non è impresa facile, ma neppure un miraggio. La necessità di diversificare geograficamente le supply chain, diminuire la dipendenza da pochi fornitori e i costi della logistica, offrono una seconda chance.
Attraverso il Chips Act l’UE sta dimostrando di averci visto giusto. Germania e Polonia in testa hanno saputo cogliere l’occasione e trasformarlo in progetti concreti. Volontà permettendo, non c’è ragione perché anche l’Italia possa essere della partita. Più ancor del prestigio, in gioco c’è un numero non trascurabile di posti di lavoro, potenziale volano per un Paese dove il ruolo dell’industria elettronica è tutt’altro che secondario.