Le mappe per affrontare il futuro

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Nell’orizzonte della transizione digitale ed ecologica in corso, l’innovazione crea nuovi mercati e opportunità di lavoro. Parola del divulgatore scientifico prof. Gianfranco Coletti, che offre le sue analisi sul ruolo di laureati Stem, start up e Pmi

Il rilancio dell’economia nazionale e globale correrà lungo i binari della transizione digitale ed ecologica. La strada è tracciata dagli organismi internazionali e dal PNRR del governo italiano. Per cogliere appieno il portato di tali trasformazioni all’interno della società e dell’industria, abbiamo scelto di dialogare col prof. Gianfranco Coletti, per quasi quarant’anni docente presso l’Università di Genova, dove si è occupato di argomenti attinenti al campo dei materiali, dell’energia e dell’ambiente.

Oggi il prof. Coletti è attivo come docente di corsi brevi sugli “advanced materials” ed è autore di articoli divulgativi su Sistemi 4.0 , su Comunicazioni 5G , su Nanotecnologie et altera.  Inoltre, il prof. Coletti si è a lungo occupato anche di normative tecniche, italiane e internazionali, dapprima (1984) come segretario del CEI CT 15 (Materiali isolanti), poi ricoprendo vari incarichi fino alla attuale segreteria del CT 113 (Nanotecnologie per sistemi e prodotti elettrotecnici).

 

Che cos’è l’innovazione, secondo il prof. G. Coletti

«Innovazione è un termine molto usato oggi», spiega il prof.Coletti. «Se si pensa ad un mercato come ad un insieme di acquirenti e a se stessi come un fornitore di prodotti/servizi, e’ comune ritenere che, qualora la domanda si indirizzi verso nuove necessità, essere i primi a soddisfarle con una proposta innovativa comporti un vantaggio rispetto alla concorrenza. Inoltre, l’insieme del mercato trarrebbe beneficio da tale innovazione, perché, a breve, si formerebbe un settore prima inesistente, quindi molti produttori potrebbero avere nuovo lavoro e ulteriori famiglie potrebbero ottenere una entrata. Perciò, l’innovazione è considerata un fattore decisamente positivo nell’economia di mercato di oggi».

Va notato, poi, che il termine “innovazione” ingloba il concetto di futuro. «Tuttavia, ci sono due futuri, uno immediato e di stringente interesse per tutti, e uno lontano, di interesse per studiosi, statisti e, in generale, per pochi specialisti», segnala il prof.Coletti. «Nel 2018, però, alcuni imprenditori, gli Stati e le multinazionali hanno iniziato a cambiare visione: adesso si guarda ad una transizione immediata, mentre il futuro lontano (oggi assimilato al “punto di non ritorno”, che viene stimato nel 2030 : fra 10 anni) si è avvicinato moltissimo e si sta mescolando con il futuro vicino. Questo avvicinamento non è ancora stato percepito da molti, nel cosiddetto mondo occidentale».

Le “roadmaps” possono perciò fornire un supporto estremamente prezioso nella stima delle innovazioni. «Il punto chiave, nell’avanzare delle tecnologie, sono le biforcazioni, i “se”, i “bivi”, i punti in cui gli sviluppi si possono divaricare, prendendo direzioni diverse», suggerisce il prof. Coletti. «Per il futurologo, che abita in tutti noi, è importante avvedersi del sopraggiungere di questi “bivi” e prevedere le conseguenze dello sviluppo , per esempio a destra o a sinistra, stilando, in ciascun caso, delle mappe del futuro, comunemente chiamate roadmaps».

Il compito delle roadmaps o mappe del futuro è di garantire un valido orientamento nel proprio percorso verso l’innovazione: «L’innovazione è collegata con le discipline Stem e discende, da un lato, da fattori come la didattica, la cultura e il contesto sociale; dall’altro lato, da quella ricerca che può generare know-how o brevetti, cioè tecnologia. Poi esiste la ricerca che produce scienza, cioè produce conoscenza non sfruttabile nell’immediato, ad esempio entro pochi cicli produttivi.»

Inoltre, l’innovazione dipende da molte persone o gruppi e sostanzialmente si sviluppa all’interno di rete molto complessa. «Ogni attore della rete deve assolutamente essere immerso nell’atmosfera della politica economica e delle strategie, altrimenti l’effetto concreto dell’innovazione sulle tematiche sociali sarà nullo», insiste il prof. Coletti.

Proprio per questo motivo, l’innovazione e il “ben-essere” di un paese non poggiano soltanto sulle discipline Stem, per quanto decisive, “esse poggiano sulla vera cultura che può essere rappresentata da una pietra dura con tante sfaccettature: le discipline Stem ne coprono alcune, ma servono anche altre sfumature, quelle che compongono la cosiddetta cultura umanistica e quelle che formano l’esperienza personale: in definitiva, serve un equilibrio».

 

Creatività italiana

Approfondendo il ragionamento, il prof. Coletti individua degli elementi di carattere storico nel successo dei laureati Stem italiani all’estero, caratterizzati da una forte creatività. «Innanzitutto i ragazzi italiani, sin dalle scuole per l’infanzia, capiscono che, nel nostro paese, le regole possono essere interpretate, con un po’ di fantasia; quindi, i giovani, in Italia, sviluppano la creatività, innata in tutti gli esseri umani, in misura maggiore che in altri paesi. In secondo luogo, il sistema scolastico, nonostante tutto, possiede un impianto eccezionale, soprattutto nelle scuole medie secondarie, che favorisce in tutti i ragazzi, tranne in singole eccezioni l’apprendimento di nozioni multisettoriali e, soprattutto, lo sviluppo intrecciato di capacità di analisi e di utilizzo delle sintesi. Di fatto esso favorisce lo sviluppo dello spirito critico in modo sistematico. Questi due fattori sono gli elementi-base della diversità italiana, parlando in generale. Sono le premesse per una cultura di qualità sia scientifica che umanistica».

Naturalmente, ciò non significa automaticamente che i laureati italiani siano i migliori del mondo. «Ogni medaglia ha il suo rovescio: tendenzialmente il laureato italiano è poco abituato a lavorare in gruppo e a rispettare le scadenze intermedie in un progetto. Questo lo rende un elemento particolare, da valutare singolarmente, in funzione dell’obiettivo da conseguire. Non parliamo, poi, del “cheating” (imbrogliare), aspetto che si presenta più spesso in Italia che all’estero. Su di esso ha molta influenza l’imprinting ricevuto (sia in famiglia che nella comunità locale di provenienza), nonché l’ambiento/contesto in cui l’individuo si trova ad operare».

Va notato, inoltre, che l’industria di un paese necessita non soltanto di un’élite di competenti, ma anche, e in larga misura, di maestranze di qualità, dai laureati ai prestatori d’opera meno blasonati, argomenta il prof. Coletti. Per questo l’Italia dovrebbe urgentemente recuperare il gap accumulato negli anni in termini di investimenti nel sistema istruzione e ricerca, coinvolgendo anche start up e Pmi. «Le start up, oggi, sono “avviatori” di innovazioni. Indirettamente, una loro numerosa presenza, in un certo bacino geografico, è indicatrice della vicinanza di una o più università e/o di centri di ricerca molto brillanti.

Le Pmi (piccole medie industrie) italiane, che impiegano circa lo 80% dei prestatori d’opera, sono decisamente elastiche (reagiscono rapidamente ai mutamenti del mercato) tuttavia, oggi, a queste caratteristiche vanno aggiunte le capacità di precedere tali mutamenti. Il contributo degli spunti tecnologici fortemente innovativi offerti dalle start up può “fare la differenza”.

Doppia transizione

In riferimento alla transizione digitale, accelerata dalla pandemia, il prof. Coletti ricorda che il futuro è caratterizzato dai dati, l’oro del millennio. «La realtà dipinta dai dati a velocità incredibili (milioni di miliardi di “parole” al secondo) richiede, sostanzialmente, un continuo divenire, un perenne cambiamento di paradigmi che traina il sorgere di modi di intendere il mondo “sempre nuovi”. Per questo motivo nelle tecnologie avanzate, come, p.es. quelle delle comunicazioni 5G, vengono volutamente attribuiti schemi non rigidi, anzi velocemente riconfigurabili di fronte a cambiamenti decisamente imprevisti e imprevedibili. Si potrebbe affermare che l’obiettivo chiave, nella transizione digitale, è sforzarsi di “imparare ad imparare” a reagire a situazioni nuove e impreviste».

Anche la transizione ecologica rappresenta una questione molto sfaccettata. Si puo’ ritenere che «Essa prenda le mosse da quattro “emergenze” (cibo, acqua, energia e ambiente) coinvolgendo tutte le angolazioni possibili: industriali, civili, di ricerca, ambientali, della economia circolare, della mentalità delle persone e così via», sottolinea il prof. Coletti. «Per es. in merito all’energia, è stato riscontrato che il totale dell’energia consumata da un paese occidentale viene utilizzata così: un terzo circa per scambi di calore in ambito civile, un terzo circa per i trasporti di persone e di merci, un terzo circa per scopi industriali».

In riferimento al settore dei trasporti, le iniziative da intraprendere in ottica “green” sono numerose. Per quanto concerne prettamente i veicoli elettrici, risulta decisivo «selezionare i materiali con cura (non in base al solo costo), costruire veicoli con profili a basso Cx, con validi isolanti termici, con impianti di condizionamento speciali, costruire alla luce di una valida analisi del ciclo di vita (LCA) (si tratta di una tecnica standardizzata per porre in luce le parti/anelli meno validi di un processo), e, non ultimo, cercare di guidare auto/autocarri accortamente. A queste condizioni potrebbe avere ecologicamente senso utilizzare auto elettriche, mentre non l’avrebbe immettere sul mercato auto “normali” trasformate in elettriche, in quanto tali auto spesso non sono state assolutamente progettate come veicoli elettrici. Tuttavia, tali immissioni causerebbero, in ogni caso, la predisposizione di reti di infrastrutture essenziali, come colonnine di alimentazione “rapida” oppure siti per sostituzione batterie».

Focalizzandosi sul settore industriale, invece, il prof. Coletti spiega che «nelle applicazioni industriali si trovano una miriade di problematiche, da quelle dei rendimenti calorici (in luogo delle preoccupazioni relative ai soli costi economici dei veicoli) a quelle di scelta dei materiali, fino a quelle di cambio-mentalità e di mutamento di alcuni processi (per esempio ricorrendo alla bio-mimetica (precursore: Gunter Pauli). Tuttavia, si dovrebbe, in questo settore, entrare in numerosi e diversi casi specifici ( è ormai famoso il “caso” della riprogettazione – entro dieci anni - di un cellulare secondo criteri di massima ecologia, di minimo costo, di minimo peso e di efficacia pari a quella dei modelli attuali…).

Sicuramente, le carte in mano agli imprenditori per rispondere alla sfida della sostenibilità ambientale sono molte. «La massima urgenza (trasformazioni totali entro dieci anni) e le opportunità offerte dalla transizione ecologica fanno procedere gli sviluppi innovativi verso molte direzioni, tutte “nuove” e “interdipendenti”. In ogni caso, serviranno inventiva e fantasia», conclude il prof. Coletti, «insieme ad una solida preparazione tecnica di base».

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